venerdì 22 febbraio 2008

giovedì 21 febbraio 2008

Fumare e scrivere suona strano

Oh chissà perché ci sono delle cazzo di cose che restano impigliate nelle trame della mente. Voglio dire, un verso di una canzone, un nome proprio, una sequenza numerica. Forse perché al di là della gucciniana memoria, fumare e scrivere sono due cose che, di certo, ormai mi rappresentano. Scrivere, soprattutto se su un foglio di carta, con un utensile alla vecchia maniera, e insieme fumare sono di certo due azioni autoreferenziali, ma l'un l'altra poco si comprendono, perché qualunque fumatore che si rispetti conosce la sensazione estraniante di scrivere con una mano (che di solito è sempre la stessa) e fumare con l'altra (che invece non conosce quasi mnemonicamente l'atto di sostenere con quelle dita la sigaretta).
Perché ora questo trip? Domanda più che lecita. Perché ho insieme voglia di fumare e di scrivere. Entrambi, insieme. Risposta più che pertinente direi.
Di fatto, apparentemente senza motivo alcuno, ci sono cose che mi ricorderò sempre: tipo a sessant'anni forse non saprò più come mi chiamo ma mi ricorderò che la lavatrice vive di più con calfort. Ne sono sicura. So che esisterà qualche stronzo che penserà perché sto qui a intasare la già sovraccarica rete di puttanate. E so che quello stronzo ha ragione, che sono solo una miriade di cazzate, manie di protagonosmo, deliri di onnipotenza, e lo so perché quello stronzo sono proprio io.

mercoledì 13 febbraio 2008

Via con me

Febbre, quasi passata, quasi lontana. Voglia, di tutto e, contemporaneamente e prevedibilmente, di niente. Vizio. Questo è quello che io chiamo il vizio. Supino, disteso tra il cerchio e la botte, l'ozio e l'oppio. L'anticamera e il bagno. No. Non sto impazzendo, mi sto solo regalando qualche attimo di libera associazione mentale, un po' al topazzo pazzo di Gadda, prima di tornare alla sterile graficità degli schemi di modalizzazione greimasiana.
C'è chi direbbe che sterili non sono, forse sterile è il punto di vista. L'occhio, la mano, il respiro.
Ricollegandomi alla Coney Island e al quesito di Emiliano, come Stephan George, anch'io credo che "nessuna cosa sia, là dove la parola manca" e, dal basso del mio sapere, posso dire di non essere l'unica. Con me, due generazioni di filosofi e linguisti, Heidegger, Gadamer, Edelman. La Di Cesare. Sono in buona compagnia.
Anche se non me ne faccio nulla adesso, mentre sfebbro, sudo e un po' forse deliro. Dovrei solo andare a morire lontano, come gli elefanti, a leccarmi le ferite, in un altrove anche privo di parole.
E di dolore.

PARPAROLE, PAROLE, PAROLE, MINA, PAOLO CONTE.

La luna, la luna,
degli ululati
lascia ai poeti
la classicità.
Là voglio arrendermi
in braccio a una musica
che chiude il discorso delle affinità.
Forte petomane,
scritta dal diavolo
in spregio evidente della civiltà...

Da Paolo Conte, Elegia, Molto lontano.

mercoledì 6 febbraio 2008

Lingua, memoria, Coney Island

La lingua, come Leila ci insegna (in tedesco!), è strumento di conoscenza del mondo, diaframma tra il nostro essere e ciò che sta fuori.
E se questo fosse valido anche per ciò che sta dentro di noi? Se la conoscenza di noi stessi fosse linguisticamente mediata o, in generale, si desse tramite un suo linguaggio?
Una cosa credo certa: capiamo del tutto sensazioni e sentimenti solo quando li riusciamo a nominare. Le parole sezionano ed evidenziano quelle essenze che si intrecciano sfumandosi nel nostro stomaco e nella nostra testa, che ci fanno magiare le unghie e dolere le ginocchia.
E' per questo che ci fa bene proiettare sul foglio di carta parole, parole, parole, no?
Bene, secondo voi la memoria funziona allo stesso modo?
A volte mi considero un gran smemorato. Faccio fatica a ricordare viaggi, esperienze passate. Ci sono, ma addormentate in un angolo nascosto della mia mente. Mi serve uno stimolo, una torcia che faccia luce laggiù, dove c'è un po' di polvere.
Leila: "Com'è Coney Island?"
io: "Coney Island? ehm... bella... è un po' fuori New York... ehm... merita"
Inizio a rallentatore, sensazione di pescare dove non ci sono pesci. Ma ci sono stato? Sì, ci sono stato! Ora ricordo.
Coney Island è sul mare. Tre quarti d'ora da Manhattan, lasciandosi dietro grattacieli ed apparenze. E' vento fresco sul viso. E' puntare il dito verso l'orizzonte. Coney Island è sentire i piedi nudi sul legno, passeggiare tra i bagnanti e le bancarelle di dolciumi. Coney Island è nera e bianca, rossa e blu come la ruota panoramica. E' il saluto che fai a chi è rimasto a terra e aspetta di salire. E' un orso rosa gigante vinto al tiro a segno e le urla che vengono dall'autoscontro. A Coney Island puoi assaggiare gli hotdog più buoni di tutta New York. Pancetta, crauti, cipolla. Senape, maionese, ketchup. Salsa barbecue. Tutto quello che vuoi, tra bandierine gialle e verdi. Coney Island è l'uomo dei gelati, con carretto e ombrellino. E' il palloncino che il bimbo dietro di te indica e pretende, piangendo e tirando la gonna della mamma. Gruppetti di ragazzi che fanno breakdance a torso nudo. E' una giostra di colori e rumori, vociare di gente e silenzio del mare. E ogni tanto una sirena della NYPD e due poliziotti in moto che sfrecciano sulla strada: silenzio. Qualcuno ha fatto qualcosa da qualche parte. Ma cosa ci importa? Siamo a Coney Island.
Nella metro, tornando verso Brooklin, abbiamo sabbia nelle tasche.
Questo è quello che ricordo, venuto fuori un po' alla volta dopo che ero stato interpellato. All'inizio solo qualche immagine, poi un quadro sempre più vivido. Parola dopo parola ho recuperato la mia Coney Island.
Le parole fanno luce: sono le nostre torce.
Siete d'accordo?

domenica 3 febbraio 2008

L'uomo vede le cose nel modo in cui la lingua gliele propone

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Rindfleischetikettierungsueberwachungsaufgabenuebertragungsgesetz
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